Politica

I padroni del voto e il trasformismo moderno

Non c’è un trasformismo buono e uno cattivo. Il trasformismo è un cancro della democrazia, a

prescindere da chi lo pratica e di quale forza politica ne beneficia. La prima repubblica aveva

debellato il fenomeno senza necessità di combatterlo. I cittadini elettori, impregnati di ideali,

impedivano di fatto il cambio di squadra e i partiti poi facevano il proprio compito, consapevoli che

l’acquisizione di politici di controparte non cambiava le percentuali elettorali e comunque era

disdicevole. Qualche raro caso in verità ci fu. Un esempio, il deputato Melloni, noto come

“Fortebraccio”, espulso dalla DC e approdato poi nelle file del PCI, ove per anni tenne una rubrica

diventata famosa sulle pagine de’ “L’Unità”. Si trattò di un cambio di partito doloroso e motivato

da un voto contrario in parlamento su un’importante questione internazionale. Melloni non varcò il

Rubicone perché non gli fu dato un incarico o perché gli fu sottratto un pezzo di potere, era un

partigiano cattolico che non riuscì a mediare tra le sue idee e la linea del partito. Nessuno lo accusò

di trasformismo per il salto politico che compì. Furono gli ideali e non il potere. Ecco, questa è la

linea sottile che può consentire l’abbandono di uno schieramento politico e l’approdo in altro senza

essere trasformisti.

Oggi non sempre è così, anzi quasi mai. La vita politica ha subìto una trasformazione radicale. Dai

signori delle preferenze si è passati ai padroni del voto. Svolta non da poco, che non ci porta in

avanti ma ci tuffa nell’antichissimo passato, un ritorno all’età giolittiana.

La perdita inconsapevole di uno dei beni fondamentali che le persone hanno: il voto. Un diritto

faticosamente conquistato e, oggi, ritenuto un peso di cui liberarsi e sul quale banchettano i

predatori di turno che si cibano del consenso elettorale per poi rovesciarlo sui tavoli politici e

rivendicare spazi di potere e di gestione, consapevoli che il vuoto politico che accompagna questa

fase, permette loro di non avere una bandiera ma vessilli intercambiali da issare alla bisogna.

La sentenza Bosman pose fine ai giocatori bandiera nel calcio e, a distanza di anni, abbiamo uno

sport in bancarotta. La politica farà la stessa fine, per sopravvivere dovrà tenere permanentemente

aperto il mercato dei posti. Un fenomeno che si accentuerà sempre più in assenza di una politica

capace di creare identità, ricostituire un rapporto fiduciario con i cittadini e tenere la barra dritta

degli ideali, attorno ai quali chiedere adesioni e consensi, lasciando le porte spalancate ai portatori

di idee e sbarrandole ai facilitatori di interessi.

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