Le ambiguità del partito democratico sulla giustizia
È toccato al segretario regionale del PD, Sen. Nicola Irto, mettere la faccia davanti ai penalisti italiani, riunitisi a Reggio Calabria in occasione del congresso straordinario dal titolo inequivocabile “Separare e riformare”; immagino che si sia sentito più o meno come un vegano in un salumificio dovendo argomentare dinanzi a quella platea le posizioni del partito, dichiaratamente contrario alla separazione delle carriere dei magistrati.
Pur avendo io fatto parte dell’assemblea nazionale del Partito Democratico per diversi anni non mi risulta che ci sia mai stato un vero dibattito sui temi della Giustizia: anzi, alcune modifiche legislative di chiaro stampo giustizialista varate con l’avallo o nel silenzio del PD come il cosiddetto “spazzacorrotti” hanno da tempo orientato l’asse del processo penale sul carcere – come unica risposta alle esigenze di tutela sociale – e sulla esigenza risarcitoria delle vittime di reato, con l’effetto di fare quasi scomparire dal dibattito la centralità dell’imputato e il principio costituzionale di rieducazione del condannato.
Ciò nonostante, nel panorama del centro sinistra, è agevole cogliere un diffuso trasversalismo in favore della separazione delle carriere che dalle posizioni di Renzi e Calenda giunge fin dalle parti del Partito Democratico; d’altronde, in occasione del congresso del 2019 la stessa mozione “Martina” conteneva riferimenti espliciti al tema della separazione delle carriere a dimostrazione del fatto che esiste da sempre anche all’interno del PD una solida coscienza garantista, oggi colpevolmente silente, annichilita dalle posizioni della maggioranza congressuale che ha collocato il partito in posizione di subalternità rispetto alla magistratura, principalmente quella inquirente, come ai tempi di tangentopoli.
Non sono in grado di sapere se le attuali posizioni del PD sulla Giustizia siano frutto della necessità di distinguersi dalla attuale maggioranza di governo onde intercettare il consenso “dell’altra parte del Paese” o se si tratti di opinioni realmente elaborate sul piano politico dall’attuale dirigenza ristretta; ciò che è certo è che sia nel primo che nel secondo caso il PD ha rinunciato a una buona parte della propria identità democratica e liberale scegliendo la via più facile e comoda di assecondare il populismo del momento attraverso il proprio voto contrario a qualsiasi riforma di stampo garantista.
Massimo Canale, avvocato, già componente dell’Assemblea nazionale del Partito Democratico